top of page

Quando Joan Mirò incantò Napoli con il suo “Linguaggio dei segni”

Aggiornamento: 23 mar 2021



L’incertezza dei tempi in cui viviamo ha trasformato irreversibilmente il nostro modo di essere e di concepire la vita: siamo stati privati di colpo anche delle cose più semplici e scontate, persino degli abbracci. Abbiamo dovuto improvvisamente mettere a punto l’ingegno, fabbricare ex novo hobby, distrazioni ed escamotage per affrontare la quarantena e il lockdown. Ma il pensiero è ribelle e lo sono ancora di più i ricordi: un tramonto, una fuga al mare improvvisata, la sensazione di salire su un aereo, abbracciare i nonni, perdersi in un museo, l’odore del teatro. E’ difficile fermarli, i ricordi, perché ad essi si accompagnano spesso sensazioni intense e profonde, in un divenire vorticoso di malinconie nostalgiche.


Proprio oggi mi sono imbattuta, casualmente, in uno di questi ricordi-tradimento (come spesso li chiamo): nel selezionare alcune riviste ho ritrovato il catalogo di una delle ultime mostre a cui ho assistito prima dello scoppio della pandemia, il mondo onirico e surreale di Joan Mirò. L’esposizione, intitolata “Il linguaggio dei segni”, si tenne a Napoli tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 e fu visitata in tutto da quasi 50.000 spettatori, numeri da capogiro se li collochiamo nella dimensione attuale. Domanda lecita: perché, a distanza di un anno (la mostra chiudeva al pubblico proprio il 24 febbraio 2020), parlarvi di Mirò e del suo “linguaggio dei segni”? Perché l’arte è speranza, è linfa vitale per i sensi ed in ogni sua forma ed espressione è quanto di più avvicini l’uomo alla perfezione. Poche cose riescono a creare emozioni più intense e pure della contemplazione di un quadro o di una scultura: nelle opere dei grandi geni dell’arte, infatti, si incontra un ideale di perfezione estatica che difficilmente proviamo nel corso della nostra esistenza.


“Nel raggiungere il PAN scorgo da lontano un certo numero di persone che si accalcano all’ingresso del Museo: genitori con i figli al seguito, coppie di giovanissimi, ragazzi in gruppo con gli zaini in spalla appena usciti da scuola. Mi fermo un attimo a guardare la folla e così mi rendo conto, non senza una certa nota di stupore, che l’arte, inevitabilmente, ha un potere immenso: chiama, unisce ed ammalia tutti, indistintamente”.



Ripercorrere un ricordo, specialmente se bello, equivale a ritagliarsi un piccolo spazio nella propria comfort zone: la fila all’ingresso, il vociare del pubblico, i colori vibranti delle tele di Mirò e, su tutte, i sorrisi, quelli che da un po' di tempo non riesco più a vedere perchè nascosti dietro la mascherina (o perchè, semplicemente, la gente non riesce più a sorridere?). Appena entrata nella prima sala ricordo che mi accolse proprio lui, Joan Mirò: all’ingresso infatti era posizionata una gigantografia del pittore catalano che lo ritraeva intento a lavorare nel suo studio. Il surrealismo mironiano, l’universo onirico e vibrante e la malìa delle sue opere mi incantarono immediatamente: le opere, un’ottantina tra tele, disegni ed incisioni erano arrivate dalla Fondazione Serravales di Porto (Portogallo) e il percorso espositivo era stato progettato in modo da toccare i sei decenni della produzione dell’artista, dal 1924 al 1981. Così concepito, il percorso espositivo metteva in luce proprio la nascita del linguaggio surrealista e onirico di Mirò e la sua evoluzione artistica fino alle opere più estreme e rivoluzionarie degli ultimi anni. Fu, a tutti gli effetti, un viaggio suggestivo ed emozionante nella produzione dell’artista spagnolo che, attraverso la poetica evasione che trasponeva non solo sulla tela, ma su ogni supporto materiale (ceramiche, arazzi, incisioni), ha rivoluzionato senza dubbio l’arte del ventesimo secolo. Mirò concepiva la sua arte come peinture-pòesie (pittura-poesia), fondando un’estetica basata prettamente su un nuovo, esclusivo, originale e moderno linguaggio dei segni. Il “segno”, seguendo il percorso della sua maturazione artistica, diventa il sostituto di qualcosa che non è più fisicamente presente: tutto ciò in particolare si riflette nella rappresentazione delle figure, che diventano superfici senza interiorità, segni delle idee tanto quanto delle cose.


“Più del quadro in sé conta quel che esso emana e diffonde. Se viene distrutto non importa. L’arte può anche morire, ma quel che conta è che abbia sparso semi sulla terra (Joan Mirò).


Ed eccolo il valore supremo dell’arte: ci aiuta a ricreare sensazioni di libertà che credevamo perdute. No, la libertà non l’abbiamo perduta: si è solo nascosta in attesa di un tempo migliore, in attesa che i germogli che, nonostante tutto, stiamo a fatica piantando ora, fioriscano in un futuro senza più paure invisibili.

Comments


protetto da ©opyright
bottom of page