Il mosaico del Golfo e l'Intelligenza Culturale
- Cinzia Nitti
- 8 feb 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Nota come la città del Futuro-già-Presente, Dubai è la sintesi perfetta di quella che definirei la megalopoli in cui culture, grattacieli, deserto e tolleranza si uniscono per dare vita alla meraviglia cui occhi e razionalità stentano a credere. Sua maestà Burj Khalifa, la torre ad essersi guadagnata il primato mondiale per altezza, sembra sovrastare il cielo e dire a chi l’ammira col naso all’insù, che no – nessun sogno è irraggiungibile se c’è abbastanza voglia e determinazione di realizzarlo.

Dietro la superficie dello skyline più affascinante al mondo però (non me ne vogliano i pionieri made in USA), esistono delle radici profonde meno note a intessere il tessuto di ciò che Dubai è. Negli anni che spesso mi hanno portata per lavoro nella città emiratina, ho condotto degli “esperimenti sociali” che sono sicura parole e accuratezza descrittiva non rispecchieranno appieno. Per non parlare dei colori, sapori, sguardi e gestualità che ho inevitabilmente riposto nell’angolo più grato e curioso del mio cuore. Un dettaglio preliminare: i dati esplicitano che questo emirato sia popolato per il 90% da residenti expat e la restante percentuale ne identifichi le famiglie local. Ecco, se si volesse avere un assaggio di ogni singolo Paese del globo, questo sarebbe fuori ogni dubbio il posto adatto da vivere per sfidare sé stessi.
Se dico cumino, zafferano e curry poi, dico (Al) Karama in Bur Dubai. Il mio quartiere preferito in questo infinito mosaico del Golfo che si rivela non solo brilluccichio, Lamborghini fiammanti e standard a 24 carati. Sì, perché tanta grandezza e varietà umana io l’ho trovata esplorando una delle aree più vecchie e popolose di Dubai … a poche fermate dal DIFC, il cuore finanziario della città.
Ore 15.00 di un giorno infrasettimanale. Metro linea rossa, salgo alla stazione World Trade Centre – direzione Rashidiya. Solo la fermata Al Jafiliya a separarmi dalla piccola grande India (con pennellate filippine e iraniano-libanesi) che da lì a poco mi avrebbe accolto in un’esperienza di allegre sfumature cromatiche, odori, sguardi e riflessioni che avrebbero aggiunto un tassello di conoscenza in più al mio bagaglio emotivo e culturale. Abu Dhabi City Bank, ADCB la mia destinazione. Decido che da questo momento in poi Google Maps non mi serve. Percorro il lungo corridoio condizionato che mi accompagna fino all’uscita: destra o sinistra? Destra, nonostante la maggior parte dei passeggeri opti per la sinistra. Da brava testarda che non deve mai mostrarsi smarrita, proseguo con sicurezza verso strade sterrate, retrobottega chiassosi, autofficine sature di lavoro da ultimare e mastri un po’ svogliati, intenti a urlare ordini in quell’ingles-hindi che tanto mi fa sorridere. Senza meta, ho osservato tutt’altro che discretamente ogni persona incrociata nel tragitto – consapevole che avrei potuto beccarmi una strigliata o un curioso “che cerchi?” se il mio sguardo fosse risultato troppo curioso.
Un bimbo seduto all’ingresso di Nesto Hypermarket. Vestiti logori, occhietti rossi – era un pomeriggio ventoso, sulle prime ho pensato i mulinelli di sabbia desertica l’avessero irritato. La sua mano timidamente aperta, rivolta verso chi entrava. Raro, quasi impossibile assistere a una scena simile a Dubai. Illegale con ogni probabilità – ma potrei sbagliarmi. Primo semaforo rosso: non sapevo se potessi aiutarlo diversamente da quanto ho fatto. Una porzione di pollo biryani e della paratha calda – sono sostanziosi e abbondanti, ho pensato. Acqua e anche del latte. Ha abbassato timidamente la mascherina sotto il mento, il tempo necessario a mostrarmi il suo sorriso quando mi sono chinata per porgergli il sacchetto. Nessuna parola, lui. L’indice sulle labbra, shhh … io. Non lo diciamo a nessuno. Il mio piccolo grande segreto con un ragazzino che non incontrerò più, al quale auguro di splendere nella vita come il suo sorriso di fronte a quella busta della spesa! Riprendo a camminare con un pesetto di piombo appeso al cuore. La certezza di aver fatto la cosa giusta, inconsapevole e tuttavia noncurante della legge locale. Un azzardo, ma quegli occhi che forse a pensarci bene non erano rossi per il vento sabbioso, lo meritavano tutto.

Proseguo a passo lento senza bussola. Tra alveari di case in pietra e terracotta, un piccolo alimentari con l’insegna arancione Cafeteria e l’iscrizione in arabo, un forno spento per polli al girarrosto sul marciapiede antistante l’ingresso, una vetrinetta dalla quale ordinare masala chai (tè) per pochissimi centesimi di dirham. Ne vorrei uno, grazie. Con latte. Secondo semaforo rosso: sbagliato! Se vuoi del chai come dovrebbe bersi il vero chai, opta per la formula “puro”. Contiene già la giusta dose di latte. Ogni aggiunta è per pivelli, come la sottoscritta. E poche gocce extra di latte non funzionano, stai sveglio come un grillo lo stesso se non ne fai un uso abituale (a meno che non si tratti di quello naturalmente annacquato che ordini da Costa). Ho evidentemente sortito una ridarella nel signore sdentato che me l’ha servito. E anche una faccia perplessa che son certa si stesse domandando: un’europea, a Karama. Una turistella, chai con poco latte – le mezze misure anche no, da queste parti. Attenta, scotta! La ringrazio, Sir … e buon pomeriggio! Un sorriso tirato, lui. Mi avrà capito? Io.
Sorseggiando il mio tè, lungo una strada colma di costruzioni dalle arcate coloratissime e graffiti formato maxi arrivo su al Kuwait Street e approdo al Karama-Centre (anche conosciuto come Karama souk), dove sciarpe e sari coloratissimi, spezie e street food asiatico, borse vintage, orologi e gioielli meravigliosi sono una gioia per occhi, naso e portafogli. Fino a ritrovarmi protagonista di brevi flirt senza esclusione di colpi, con l’obiettivo unico di chiudere l’affare del secolo. Qualità accessibile e quella maestria nel saper vendere anche l’aria senza l’opprimente negoziato tipico dei colleghi arabi. Terzo semaforo rosso: sto etichettando e paragonando modi di vendere e contrattare (o sfiancare psicologicamente) tra etnie. Ma ci risiamo, sempre la solita: ecco un’europea, una polla da spennare. Da dove vieni? Italia. Salvata da una giovane sulla trentina, proprietaria di una bancarella di spezie e frutta secca al peso, con indosso un sari fucsia e dei ricami dorati che gli occhiali da sole non bastavano a mitigarne la luce. Sorridente, delicata nel modo di invitarmi. Le braccia aperte in segno di accoglienza e le mani a indicare la vasta scelta dei suoi prodotti. Semplicemente stupenda. Ciao bella, sei nostra amica! Un sacchetto pieno di zenzero e chakoli piccanti per te, da mettere in valigia. Come facesse a sapere quanto fossi ghiotta di chakoli (e quanto mia cognata avrebbe apprezzato!), me lo domando ancora.

In questo allegro stordimento da souk, imbocco una delle tante (sembrano tutte uguali) strade verso l’uscita, e non riesco a fare a meno di notare quelli che sembravano coriandoli formato tessera sparsi sull’asfalto. Una quantità indescrivibile di: Kerala SPA, German SPA, Russia SPA, Gujarat SPA, Philippines SPA … foto di donne disponibili al “trattamento spa” a domicilio. Di certo ne ho dimenticata qualcuna – e lungi da queste specifiche geografiche voler risultare offensiva. Il quarto semaforo rosso: da donna, devo ammettere di esserne rimasta tristemente colpita. Di quelle frecce al cuore, o schiaffi in pieno viso, che in un attimo portano alla luce l’altra faccia della medaglia. Quello di chi si vende per vivere, per piacere o per motivi ai più sconosciuti, per scelta o per ragioni-altre. Avrei voluto concludere le mie 5 ore di cammino a Karama con lo stesso spirito avventuriero col quale ho affondato il primo passo nello sterrato sabbioso, scegliendo di andare a sinistra. Chissà, forse cambiare la direzione iniziale avrebbe variato il corso degli eventi, l’intensità degli sguardi incrociati, il ventaglio di occasioni descrittive da proporvi.
“Impara a vedere. Renditi conto che ogni cosa è connessa con tutte le altre”: Leonardo Da Vinci ci aveva visto lungo secoli fa, quando ancora le conoscenze antropologiche, sociali e sociologiche non avevano raggiunto un equilibrio tanto consapevole. Sono entrata in un posto per comprenderne la variegata diversità e attraversarlo a passo lento ma non troppo delicato, con tutti i timori e la frustrazione derivante da quanto non conoscevo; mi sono ritrovata ad essere oggetto di perplessità, osservazione, curiosità, a volte non gradimento da parte altrui. Non appartieni a questo micromondo, te lo dicono senza parlare - lo senti. Gli occhi e le braccia conserte comunicano, non c’è mascherina in grado di mitigare l’espressione di qualcosa. Non si è trattato di un "esperimento" a senso unico come inizialmente ero certa sarebbe stato, bensì una vera e propria relazione di scambio. Relazione intesa come connessione umana in cui occhi che si incrociano per la prima e ultima volta, hanno definito la reciproca identità permettendo all’altro di entrare nel suo mondo.

Una forte dose di intelligenza culturale è stato il requisito essenziale: un tuffo un po’ più profondo nei miei tratti interiori e culturali, nei punti cardine sociali peculiari del mondo cui appartengo. Ho compreso, come una rivelazione che ciò che è la "norma sociale" per me, può essere la stranezza per gli altri. Lasciar entrare anziché giudicare è la chiave per rispondere in modo differenziato e appropriato al contesto, includendo l’abilità di controllare sentimenti di rabbia, frustrazione, risentimento che generalmente fanno emergere il senso di straniamento e mancata familiarità con la comunità circostante. Ecco, io le ho provate tutte le emozioni che entrano in gioco in questa danza di scambio.
È un viaggio lungo, straordinariamente stimolante. Osare fuori dalla propria comfort-zone di sovrastrutture per lasciare entrare pezzetti di mondo dentro Sé: il primo passo per nutrire una forma di conoscenza che arricchisce il mosaico interiore, più del timbro sul passaporto.
Cinzia Nitti © Riproduzione vietata
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