Sylvia Plath: la voce Donna del Novecento americano
- The Good Reader
- 3 ago 2021
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Sylvia Plath nasce a Boston nel 1932 e muore suicida nel 1963 a Londra. E' la poetessa più nota e ammirata del Novecento americano: ha esordito all'età di appena 8 anni con il suo primo componimento - a pochi mesi dalla perdita prematura di suo padre - e da allora la sua vita poetico-letteraria ha collezionato successi e riconoscimenti ai più alti livelli, tra i quali il premio Pulitzer, attribuitole postumo nel 1982.
Nonostante i successi e l'ammissione al prestigioso Smith College femminile, fu colta da una crisi depressiva che la portò al primo tentativo di suicidio nel 1953.
Un esempio perfettamente descrittivo il malessere della Plath, lo troviamo nel romanzo semiautobiografico "La campana di Vetro" (The Bell Jar), scritto nel periodo successivo alla depressione e pubblicato con lo pseudonimo di Victoria Lucas.
Di femminismo, alienazione, sogni di emancipazioni infranti e frustrazione legata alla condizione della donna in quegli anni, la sua produzione è colma. Ma anche morte e rinascita, e discrepanza tra aspettative e realtà, sono i fili conduttori della sua continua e instancabile ricerca interiore, condivisi poi nero-su-bianco nelle sue raccolte.
La poesia scelta Ariel, è stata scritta poco prima del suicidio nel 1963 - e pubblicata postuma in una raccolta dallo stesso titolo - due anni dopo. In questa lirica a versi liberi, esplode tutta la forza comunicativa della Plath, tra la metafora passionale del suo amore melanconico per i paesaggi sconfinati, la consapevolezza del malessere emotivo e la libertà dell'emancipazione femminile, a cavallo del vento.

Ariel
Stasi nel buio. Poi l’insostanziale azzurro versarsi di vette e distanze. Leonessa di Dio, come in una ci evolviamo, perno di calcagni e ginocchi! –
La ruga s’incide e si cancella, sorella al bruno arco del collo che non posso serrare, bacche occhiodimoro oscuri lanciano ami – Boccate di un nero dolce sangue, ombre.
Qualcos’altro mi tira su nell’aria – cosce, capelli; dai miei calcagni si squama. Bianca Godiva, mi spoglio – morte mani, morte stringenze.
E adesso io
spumeggio al grano, scintillio di mari.
Il pianto del bambino
nel muro si liquefà.
E io
sono la freccia,
la rugiada che vola
suicida, in una con la spinta
dentro il rosso
occhio cratere del mattino.
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