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Wislawa Szymborska: l'unicità nella moltitudine

Maria Wisława Anna Szymborska è stata una poetessa, saggista, traduttrice polacca, insignita nel 1996 del Premio Nobel per la Letteratura "per una poesia che, con ironica precisione, permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti d'umana realtà".

Nata a Prowent (attuale Kórnik) ha vissuto la sua intera esistenza a Cracovia, in Polonia. Qui i suoi romanzi e raccolte di poesie hanno raggiunto l'apice editoriale per numero di ripubblicazioni e di vendite hanno fatto concorrenza ai maggiori autori contemporanei - anche se, come l'autrice stessa ha dichiarato provocatoriamente in una delle sue ultime poesie pubblicate "Niektórzy lubią poezję" ("Ad alcuni piace la poesia") solo uno su un milione sa apprezzarla davvero.



Molte delle poesie di Wislawa sono incentrate sulla guerra e sul terrorismo, ma anche sulle contraddizioni dell'essere umano in chiave filofico-riflessiva e mai banale.

Ha scritto da punti di vista insoliti, come quello di un gatto rimasto in un appartamento lasciato vuoto dal suo padrone deceduto. La sua reputazione si basa su un corpo relativamente piccolo di opere, meno di 350 poesie. Eppure si sono fatte strada in ogni angolo del globo e son state tradotte in inglese, in molte lingue europee, in arabo, ebraico, giapponese, persiano e cinese. Forse la grandezza e il segreto di Wislawa Szymborska risiedono proprio qui: nel custodire e mantenere il dono dell'unicità nella moltitudine.



Nella moltitudine


Sono quella che sono. Un caso inconcepibile come ogni caso.

In fondo avrei potuto avere altri antenati, e così avrei preso il volo da un altro nido, così da sotto un altro tronco sarei strisciata fuori in squame.

Nel guardaroba della natura c’è un mucchio di costumi: di ragno, gabbiano, topo di campagna. Ognuno calza subito a pennello e docilmente è indossato finché non si consuma.

Anch’io non ho scelto, ma non mi lamento. Potevo essere qualcuno molto meno a parte. Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante, una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.

Qualcuno molto meno fortunato, allevato per farne una pelliccia, per il pranzo della festa, qualcosa che nuota sotto un vetrino.

Un albero conficcato nella terra, a cui si avvicina un incendio.

Un filo d’erba calpestato dal corso di incomprensibili eventi.

Uno nato sotto una cattiva stella, buona per altri.

E se nella gente destassi spavento, o solo avversione, o solo pietà?

Se al mondo fossi venuta nella tribù sbagliata e avessi tutte le strade precluse?

La sorte, finora, mi è stata benigna.

Poteva non essermi dato il ricordo dei momenti lieti.

Poteva essermi tolta l’inclinazione a confrontare.

Potevo essere me stessa – ma senza stupore, e ciò vorrebbe dire qualcuno di totalmente diverso.




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